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venerdì, Marzo 29, 2024

MALESIA. BORNEO: ECO-TURISMO NELLE FORESTE PLUVIALI a passeggio fra le cime degli alberi

testo e foto di Pia Bassi

 

Mentre in aereo ci si avvicina alla Malesia, ci si accorge che lo scrigno verde delle foreste pluviali equatoriali è ancora preservato dall’erosione degli insediamenti ed attività umane: fa eccezione la nuova capitale, Putrajaya, che raccoglie tutti i ministeri e le attività amministrative del Paese alleggerendo così la capitale storica Kuala Lumpur conosciuta soprattutto per le Petronas Towers, l’emblema della nuova architettura asiatica.

La meta del nostro viaggio è il Borneo, che riserva ancora molte sorprese non soltanto ai turisti, ma soprattutto agli uomini di scienza. Gli habitat intatti da esplorare vanno dalle profondità marine, isole circondate da barriere coralline, ai 4101 metri del monte Kinabalu, uno dei picchi più elevati che si trovano sull’equatore, fra la catena dell’Himalaya e la Nuova Guinea. Il Kinabalu è nato dalla compressione causata dai movimenti delle placche tettoniche del Pacifico occidentale e dell’Oceano Indiano. La sua altitudine fa si che sui suoi pendii si sia sviluppata una vegetazione varia, dalla tropicale a quella alpina. Le due regioni autonome che abbracciano la montagna con i loro parchi, Sabah e Sarawak, sono interamente coperte di foreste pluviali, ricche di flora e fauna uniche al mondo. Gli ecosistemi di queste foreste pluviali che non hanno mai conosciuto l’epoca glaciale e fortunatamente neppure incendi, offrono agli studiosi ancora oggi migliaia di essere viventi ancora da scoprire e catalogare, un lavoro interminabile soprattutto se si vuole mettere in banca dati anche il loro Dna.
Le specie animali e vegetali presenti nel solo Borneo, sono un terzo di tutte le specie presenti in Europa. Si calcolano 300 mila specie di coleotteri , 500 di gasteropodi, 70 di rane e rospi, 46 di uccelli, 22 di mammiferi, 608 di felci 608, farfalle e falene 300, alberi e fiori a migliaia, a secondo del tipo di terreno, migliaia di piante con proprietà curative ben conosciute dagli indigeni e che hanno dato luogo nel 1997 a un progetto Etno-botanico (Pek) finanziato dalla Mac Arthur Foundation. Il Pek sta facendo un inventario di tutte le piante conosciute dalle tre etnie locali: Dusun, Kadazan e Murut. L’erbario è computerizzato dal Geological Information System della Columbia University. I risultati saranno poi messi a disposizione delle comunità locali per incoraggiarne lo sviluppo basandolo soprattutto sull’uso saggio delle risorse naturali.
La foresta è un ammasso di verde cupo ingentilito da improvvisi squarci di colore di orchidee dai lunghi steli penduli o dai brillanti fiori dell’Alpinia havilandii o dal rosso intenso della Rafflesia, il più grande fiore del mondo senza stelo che sboccia dall’humus del terreno. Un fiore raro, parassita, de quale esistono 14 specie, difficile da osservare tant’è che le popolazioni indigene offrono ai turisti la loro visione dietro un piccolo compenso, accompagnandoli nell’intricata foresta. Altro fiore speciale la Nepenthes, 65 specie, a forma di orcio o di bottiglia, possono contenere fino a 4 litri d’acqua piovana.
In queste foreste sia lo scienziato che il turista non si annoieranno mai. Nella città di Kota Kinabalu, il capoluogo del Sabah, guide esperte accompagnano i turisti che vogliono vivere alcune settimane ecologiche nella foresta, nutrendosi esclusivamente dei suoi frutti e percorrendo ponti tibetani gettati su fiumi ricchi di vita o fra le fronde degli alberi a un’ottantina di metri da terra. Questi percorsi aerei fra le arcate gotiche della foresta, sono stati dapprima usati dai ricercatori per studiare la vita delle sommità arboree, ed ora pagando un pedaggio sono a fruibili anche dai turisti.
I villaggi indigeni sparsi nella foresta sono a diverse giornate di cammino dai centri abitati civili e non sono inseriti negli itinerari turistici, mentre per i turisti sono a disposizione i villaggi musei dell’Heritage, come quello di Kadazan, dove una guida mostra usi e costumi della gente comune del villaggio e quelli dei guerrieri tagliatori di teste, introducendo i turisti nella capanna rituale, non prima d’aver letto un’iscrizione sulla porta d’ingresso per chetare gli spiriti dei guerrieri i cui teschi sono appesi ben allineati sotto il tetto della casa.
Nella foresta del Borneo, migliaia, milioni di specie si sono specializzate a vivere e a sopravvivere in un ambiente immutabile, non privo di pericoli. Così la strategia per la sopravvivenza ha trasformato un insetto in uno stecco, un rospo o una farfalla in una foglia, un fiore in un animale, un liana in un serpente, questo spiega la guida James mostrandoci la foto di un amico ingoiato da un pitone, ma l’incontro più entusiasmante è quello con l’Orang utan, ovvero uomo della foresta, con il quale condividiamo il 98 per cento del nostro patrimonio genetico. Essere schivo, quando è allo stato brado, è socievole nel Centro di riabilitazione a Sepilok, Sandakan, dove ne sono ricoverati una sessantina per riabilitarli alla vita della foresta. Dopo avere ricevuto fin da piccoli l’imprinting umano ed essersi abituati ad avere cibo dall’uomo, non sanno più procurarsi il cibo dalla foresta ed arrampicarsi sugli alberi. La riabilitazione è un lavoro lungo e paziente e il Centro, nato nel 1964, lavora con successo su tutti i soggetti. Riescono così a diventare adulti ed a procreare, creando però problemi di sovraffollamento. Nell’area circostante a Sepilok vivono 300 oranghi, un numero superiore alle possibilità di sostenibilità della foresta. Un’area affollata crea problemi. Gli oranghi maschi si scontrano per l’uso del territorio, si feriscono e ritornano al Centro per essere nuovamente curati. Il numero ideale di oranghi per chilometro quadrato, secondo la disponibilità di cibo, è di 2 o 4, attualmente sono 7. La Direzione del Centro sta cercando quindi nuove aree protette, come il parco di Tabin a 90 chilometri di distanza. I ricollocamenti degli oranghi sono costosi perché devono essere fatti con gli elicotteri, ma le spese sono successivamente recuperate perché questi nuovi Centri di riabilitazione attirano i turisti e promuovono lo sviluppo nella zona. Gli oranghi devono avere grandi riserve per le loro scorribande, la vicinanza dell’uomo l’ associano a cibo facile e diventano quindi pigri, sedentari e sviluppano una malattia tipica anche nell’uomo: l’obesità. Persino il pelo diventa più lungo del normale. Cibo abbondante e sedentarietà nuocciono anche agli oranghi.
Potere osservare gli oranghi da vicino nelle loro varie attività, vale il lungo viaggio aereo di quindici ore da Roma con la Malaysia Airlines, fino a Kota Kinabalu, Borneo. Vedere le loro mutevoli espressioni, la loro intelligenza nel sapere usare ben 54 strumenti diversi per estrarre gli insetti e 20 per rompere i frutti, la tecnica per estrarre il miele nascosto in un tronco d’albero, ci inviata ad amare e rispettare la natura.
Tuttavia se molti oranghi vengono salvati, anche grazie ai progetti della
inglese Orangutan Appeal Organisation, www.orangutan-appeal.org, altri vengono ancora uccisi perché dal loro cranio o dalle loro mani se ne ricavano macabri soprammobili. Le madri vengono uccise per catturare il neonato che sarà poi venduto come "animale" da compagnia. Vittime dei cacciatori indigeni, ora muniti di fucili, sono anche altri primati, come i macachi, i gibboni e la scimmia nasuta, uccisi anche per uso alimentare.

 

ADDIO AI TIPICI VILLAGGI FLUVIALI SU PALAFITTE. SOPRAVVIVERANNO SOLTANTO QUELLI SOTTOPOSTI A MAKE UP E TRASFORMATI IN PRODOTTO TURISTICO.

Non c’è posto al mondo per i poveri! Il turismo, dal Polo Nord al Polo Sud stravolge usi e costumi delle popolazioni locali per rendere i luoghi turisticamente più fruibili. Anche le abitazioni precarie, come possono essere i villaggi su palafitte da secoli sulle rive dei fiumi, soprattutto nel sud est asiatico, possono diventare improvvisamente ostacolo allo sviluppo dell’economia turistica della zona e quindi invisi ai governi che cercano di convincere la popolazione dell’utilità di spostarsi nell’entroterra in anonimi caseggiati in cemento che hanno tanto in comune con le case popolari delle periferie delle grandi metropoli.
Questa rimozione forzata di gente abituata a vivere sul fiume, non è indolore, soprattutto per molti capi famiglia che fanno da sempre i pescatori ed hanno legato la barca proprio ai pali, sottocasa. Inoltre per la maggior parte di queste abitazioni non si pagano affitti, anche perché costruite sull’acqua ed ampliate secondo l’esigenza, dalla famiglia stessa. Numerosa solitamente, di etnie e paesi diversi, anche clandestini, che qui convivono abbastanza pacificamente, perché la vita è a buon mercato e quindi si possono sopportare vicini diversi e l’aria afosa maleodorante che esala dalle fondamenta, pali infissi in acquitrini ricettacoli di spazzatura. Tutto ciò che non serve più alla casa soprastante viene gettato ed abbandonato di sotto, nell’attesa che arrivi l’onda di piena che asporta e pulisce. Una casa sulla terraferma in muratura costa, si vive inoltre a stretto contatto con gli altri, uno stile di vita al quale non sono abituati, ma al quale si dovranno adeguare perché il Governo centrale e le municipalità delle due regioni Sabah e Sarawak perseguono da anni la politica del trasferimento soprattutto per ragioni igienico-sanitarie.
Alcuni di loro non vogliono tuttavia rinunciare a quell’aria di libertà che qui si respira: le passerelle d’accesso che si snodano tra le palafitte creando un dedalo di viuzze sopraelevate, magari hanno assi mancanti, ma la casa dove arrivi può essere povera ma pulita con i fiori alle finestre, panni stesi e tanti bambini ben nutriti e puliti. Sembra che nessuno faccia a caso allo sporco sottostante dove fra scarpe rotte e contenitori di plastica razzolano fieri galli da combattimento, galline e anatre. Anche fra queste povere case, i manifesti inneggiano al cinquantesimo anniversario dell’Indipendenza (1957-2007, che ha portato benessere in tutta la Malesia e, come ha detto il Primo Ministro, Datuk Seri Abdullah Ahmad Badawi, lo strepitoso bilancio previsto per il 2008 migliorerà la qualità della vita di tutti i malesiani, in tutti i settori, dalla scuola alle abitazioni. Uno dei volani della ricchezza economica della Malesia è appunto il turismo, che cresce ogni anno: per il 2010 sono attesi 25 milioni di stranieri. Ed il Borneo con la sue foreste tropicali pluviali, ricche di flora e fauna, e le isole con le barriere coralline che in bellezza possono competere con quelle del Mar Rosso, il monte Kinabalu, 4101 m., è il fulcro dell’attrazione turistica malesiana. Ed è appunto per dare sicurezza ed un’immagine di efficienza del Paese, che questi villaggi fluviali, se vogliono sopravvivere, devono accettare di essere trasformati in attrazione turistica, muniti di acqua potabile, fognatura, raccolta dell’immondizia. Il Governo malese ha invitato tutti ad alzare gli standard di qualità che devono soddisfare la crescente domanda turistica, un motore di distribuzione del lavoro che apporterà benessere anche agli abitanti di questi villaggi, la cui attività principale non è più la pesca. I villaggi che non sono in grado di adeguarsi a questi standard, saranno distrutti e gli abitanti dovranno accettare di trasferirsi sulla terraferma.
Già il quartiere palafitticolo di Sim Sim nei pressi di Sandakan, la città del Borneo orientale che si affaccia sul Mare di Sulu, punto di partenza per visitare il noto Centro di riabilitazione degli oranghi di Sepilok e la famosa isola di Sipadan, una delle dieci migliori destinazioni subacquee al mondo, sta per subire la trasformazione per uso turistico. Passerelle di accesso e case sono in ordine, sul marciapiede della strada principale ci sono i contenitori per la raccolta differenziata, hanno fiori strepitosi alle finestre e lungo le staccionate, alcuni negozietti vendono prodotti artigianali di buona qualità, conchiglie, perle, collane, spille.
Il Signor Alvab ha 36 anni e vive da sempre nel villaggio, non ha seguito i genitori che si sono trasferiti in una casa in muratura a Kota Kinabalu. Con la moglie e quattro bambini si trovano bene sulla palafitta. Dal negozio si intravede il soggiorno, arredato con gusto, c’è anche un grande televisore satellitare. Amano quest’angolo tranquillo, senza il rumore di camion e automobili che passano ininterrottamente sulla statale. E’ un luogo sicuro che per i bambini, fiori ovunque, coltiva la verdura nei vasi. Contento della trasformazione, quando tutto sarà in ordine e pulito arriveranno tanti turisti e lui farà più affari. Restano antichi problemi: la plastica gettata nel fiume, assieme a tutto ciò che dovrebbe finire nei contenitori dei rifiuti. Una vecchia abitudine difficile da estirpare. La gente è pigra, occorre tempo per una trasformazione mentale.
Un’altra palafitta, circa 200 mq. collegata alla terraferma ha una splendi
da automobile sul pontile d’ingresso. A Sim Sim non se la passano male, c’è chi lavora negli alberghi, chi nei supermercati, nelle piantagioni di palma, l’affitto è basso, nessuna spesa condominiale, non c’è il riscaldamento, i più fortunati però hanno il condizionatore. Non tutti però la pensano come Alvab, le donne come Michelle e Bernardeth che lavorano in un bel ristorante sulla collina, ricavato da un’antica casa inglese, dicono che questi villaggi sono una vergogna e che i bambini devono crescere in zone sane, in belle case, per un avvenire migliore.
Di parere contrario è Dalhaida, 22 anni, vive a Kampung Forest da tre anni. Ci è arrivata in barca con i genitori e le cinque sorelline, da Mindanao, un’isola delle Filippine. Si vive bene sulle palafitte, dice. Nel suo villaggio c’è già l’acqua potabile, la luce elettrica, le fognature. Parla l’inglese, ha studiato ed ora insegna alle sue sorelle: a leggere e a scrivere, oltre alla lingua base del turismo. Desidera ritornare a scuola, ama l’informatica, ma deve lavorare per aiutare i genitori.
A Kota Kinabalu, la città capoluogo e porta d’accesso del Borneo, ci sono molti villaggi sulle palafitte che creano problemi di rifiuti galleggianti sul mare per arenarsi sulle spiagge degli alberghi di lusso come il Sutera Harbour Resort, circondato da splendidi campi di golf, o fra i coralli del parco marino Tunku Abdul Rahman che schiera le sue verdi isole Gaya, Mamutik, Manukan, Sapi meta di escursioni.
Il villaggio palafitticolo di Kampung Air Tanjung Aru, sulla strada per l’aeroporto internazionale di Kota Kinabalu, già circondato da grattacieli, sarà ristrutturato. Il Consiglio della città ha stanziato 10 milioni di Ringgit (pari a due milioni di euro circa) per la trasformazione. Qui vi abitano tremila persone su 240 case di legno, abbastanza malandate.
Con passo sicuro avanza su una passerella traballante Corason, 41 anni, mamma di tredici figli, un volto stanco ma deciso. Famiglia numerosa ma lei trova il tempo di andare in città a fare la domestica per pagare l’affitto, 150 Ringgit, al mese. Il marito lavora come muratore, comunque vivono meglio che nell’isoletta delle Filippine da dove sono scappati venti anni fa dalla fame e dalla miseria. Non li preoccupa la trasformazione del villaggio. Corason metterà più fiori e spera che l’acqua stagnante e sporca venga drenata per cancellare il cattivo odore. "Se ci spostano è peggio" dice " perché potremmo perdere tutto".
Un uomo afferma che la gente della città pensa che qui vivano elementi antisociali, criminali, spacciatori di droga, squatters e quindi è bene che venga abbattuto. "Tutti cercano di lavorare in città per sopravvivere – insiste – Il fatto è che ci ritengono i primi responsabili dell’inquinamento biologico e della spazzatura nella baia! Purtroppo non ci sono regolamenti che vietano di buttare i rifiuti in acqua e non c’è neppure un sistema di raccolta come c’è in città".
L’80 per cento della popolazione ha dato il consenso per la ristrutturazione, se sarà attuato secondo i progetti, sarà un villaggio modello da imitare.
I più scettici sono gli abitanti di etnia Bajao del villaggio fluviale Hengkabon, sull’omonimo fiume, un tempo dediti totalmente alla pesca. Attualmente solo pochi hanno le barche e vanno a pescare i gamberi da fiume, che poi essicano sulle passerelle di legno e vendono in scatola ai ristoranti. C’è anche chi fa itticoltura nel fiume ed i guadagni non sono male. Altri lavorano nelle piantagioni. Ragazzi e ragazze vanno a scuola in divisa, la moschea è sulla terraferma.
In questo villaggio, pieno di bambini scorrazzanti, la sporcizia e l’odore sono insopportabili. Acque stagnanti putride e cariche di rifiuti biologici.
Chiediamo se non sono preoccupati dal disgelo dei Poli ed alle variazioni climatiche che faranno aumentare il livello delle acque. Non ne sanno nulla. Ridono. "Impossibile! Le nostre case sono sicure, sono di legno e già sull’acqua, infine possono galleggiare!
Loro, l’umile gente delle palafitte, hanno già pronta l’Arca di Noè!

 

 

Articoli pubblicati sul bimestrale Oasis, agosto-settembre 2008. 

 

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