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giovedì, Aprile 18, 2024

India: “Mi inchino a te”

di Mimmo Vita

Dall’incantevole e contraddittoria India, terra delle diverse religioni, di racconti da “mille e una notte”, ma anche patria del Mahatma Gandhi, ci giunge un messaggio di pace e speranza.

Stuzzica la leggenda di Maryam, sposa cristiana di Akbar, durante la visita alla splendida città perduta di Fathepur Sikri (vicina a Jaipur), antica capitale indiana abbandonata intorno al 1600 per insufficienza d’acqua. Akbar fu Gran Mogol (imperatore) dell’India settentrionale dal 1556 fino alla morte (1605) e si distinse per il suo naturale istinto verso l’arte, la cultura e la bellezza. Sebbene musulmano, ripudiò sia la jihad (guerra san- ta) che la legge coranica, abolí il concetto della religione di Stato, introdusse principi di tolleranza, dialogo e persino di eguaglianza tra le fedi. Nella città fortificata di Fathepur Sikri da lui eretta, si fondono armoniosamente elementi architettonici della religione indú e dell’islam, ma anche… cristiani. Akbar infatti, curioso e furbo, invitò piú volte i cristiani arrivati dal Portogallo a Goa (India occidentale), e cosí ebbe modo di conoscere la giovane e bella Maryam e ne fece la sua terza moglie accanto alle altre “due sorelle”: la sposa indú e quella musulmana; come testimoniano i simboli cristiani inseriti nell’appartamento che spettava a Maryam e la piccola chiesetta, a dire il vero non facilmente visibile.

Oggi l’India, tra i piú popolosi paesi al mondo con un miliardo e trecento milioni di abitanti, non ha perso il fascino delle leggende quasi da mille e una notte, nonostante non manchino forti contraddizioni. La religione dominante è quella induista (80%), seguita dalla mussulmana (14% circa, specie al nord); i cristiani sono il 2,3%, i Sikh l’1,7%. Nuova Delhi, la capitale con 20 milioni di persone, è la sintesi del sincretismo indiano: palazzi avveniristici e tuguri lungo le strade polverose; uomini d’affari e bambini venditori; centri commerciali e risciò; autostrade e pullman o treni coi passeggeri sul tetto; modernità e tradizioni, anche religiose. Gli indú, nell’entrare nel tempio, suonano la campana per svegliare i loro dei, con sempre qualcuno pronto a fare l’offerta. L’Islam, in particolare al nord, nel Rajasthan, è presente con le sue moschee e le vestigia della dinastia Moghul, a cominciare dallo straordinario Taj Mahal, una delle sette meraviglie al mondo, ad Agra (a sudo- vest di Delhi). Nel 1631 per erigere il monumento furono raccolte pietre preziose di ogni tipo, perle, coralli.

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E i Sikh? Specie i maschi, fieri nei loro turbanti, capelli e barbe, sono facilmente visibili. A Delhi sorge il bellissimo Bangla Sahib, il loro enorme tempio, costruito alla fine del XVIII secolo, con interni e cupole d’oro, molto frequentato (anche dai turisti…): si entra scalzi e col capo coperto.
A piedi nudi si visita anche la grande moschea Jama Masjid (a Delhi, del 1658), la piú grande dell’India; e sempre nella capitale svetta il piú alto minareto in mattoni del mondo, 72,5 metri nel complesso di Qutub Minar (XIII se- colo), patrimonio dell’umanità UNESCO dal 1993.

In questa città non possiamo non ossequiare uno dei maggiori testimoni di pace e non violenza: il Mahatma Gandhi, la “grande anima”, padre dell’India moderna (assassinato nel 1948, un anno dopo l’indipendenza), cui il popolo indiano ha dedicato un enorme mausoleo. In un suo scritto, ancora attuale, ci esorta: «Benché si canti Ogni gloria a Dio nell’Alto dei Cieli e pace in terra, oggi come oggi, non sembra esserci né gloria a Dio né pace sulla terra. Finché rimarrà una sola bocca affamata, finché Cristo non sarà ancora davvero nato, dobbiamo continuare ad aspettarlo…». Gandhi era indú, ma apprezzava gli insegnamenti di Cristo: «Vidi che il Sermone della Montagna sintetizzava l’intero cristianesimo per chi intendesse vivere una vita cristiana. Fu quel sermone a farmi amare Gesú…». Questo Gesú, il Figlio di Dio, nascerà ancora una volta per noi e per tut- ta l’umanità, ed è la nostra certezza di Salvezza e di Pace. Davanti a Lui e ad ogni fratello ripetiamo: “Namastè” (mi inchino a te), il dolce saluto che gli indiani offrono sempre con un sorriso e le mani giunte.

L’articolo è stato pubblicato nel numero di dicembre 2015 del mensile Il Santo dei Miracoli

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