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venerdì, Aprile 26, 2024

Birmania, nella Shwedagon Pagoda di Yangon il capolavoro del Buddhismo

Giovanni Bosi

Quello che colpisce di chi ti sta accanto sono il silenzio, la concentrazione, l’intensità del ritrovarsi in se stessi. Ma al contempo anche la gioiosità, la condivisione, una gestualità e una preghiera che non sono fini a se stesse. Essere nella Shwedagon Pagoda di Yangon, il simbolo della città più importante dell’antica Birmania, l’attuale Myanmar, è ben più di una visita ad un patrimonio artistico eccezionale. E’ come trovarsi nel cuore della spiritualità buddhista.

È chiaramente una delle meraviglie del mondo religioso. Ma a ben guardare la Shwedagon Pagoda è il sistema più efficace per cercare di capire o interpretare quel modo di vivere riconducibile al Buddhismo. E così aggirarsi intorno alla gigantesca stupa placcata d’oro e tra le centinaia di templi colorati, le 64 piccole stupa e le statue espressione di un’architettura di quasi 2.500 anni, si traduce in una straordinaria osservazione di varia umanità che prega, attinge acqua sacra da bere, accende candele profumate, depone frutta davanti alle immagini sacre. Devoti e monaci lavano le statue, offrono fiori, adorano e meditano. Ma non solo: la pagoda si rivela luogo d’incontro, di conversazione, di unione. E così quando lo sguardo corre tutto intorno, ci si rende conto che lì c’è una folla immensa, il cui rispetto è dimostrato dal parlare sommessamente.

 

Come negli altri siti, anche qui si deve entrare a piedi nudi, con le gambe coperte da un longyi. Anche questa è un’esperienza da vivere, irrinunciabile. E arrivare qui al tramonto, quando la gigantesca stupa dorata sembra incendiarsi sotto i raggi del sole ormai arancioni, significa cogliere il momento più bello e profondo della giornata. Queste sono le prime sensazioni che colgono il visitatore che arriva da un “mondo” completamente diverso. Tanto che, a un certo punto, la freneticità del nostro quotidiano sembra lontana anni luce. Qui alla Shwedagon Pagoda è come se si fosse entrati in un luogo senza tempo.

Ma perché è così impressionante questo luogo? Secondo la tradizione, la costruzione della Pagoda di Shwedagon (adagiata sulla collina Singuttara, a ovest del Royal Lake) risale a 2.500 anni fa, al 588 a.C., destinata a custodire le reliquie dei quattro Buddha: il sostegno di Kakusandha, il filtro d’acqua di Konagamana, un frammento dell’abito di Kassapa e otto capelli di Gautama, il Buddha storico. Sulla datazione del complesso in realtà gli storici hanno qualche perplessità, ma che sia il deposito del meglio del patrimonio dell’antica Birmania non ci sono dubbi. Una spiegazione sul termine “stupa” è necessaria: questo termine sanscrito individua la costruzione deputata a conservare reliquie. E questa di Shwedagon è davvero da grandi numeri: la sua altezza si avvicina a 99 metri, è ricoperta da centinaia di foglie d’oro e la punta è tempestata di 4.531 diamanti, il più grande dei quali è da 76 carati.

E mentre cala la notte e molti più devoti arrivano, gli occhi non si saziano di guardare intorno: gran parte della bellezza della pagoda deriva dalla complessa geometria della sua forma e delle strutture circostanti, così come altrettanto affascinante è il suo splendore dorato. Lo stupa inferiore è placcata con 8.688 lingotti d’oro massiccio, la parte superiore con altri 13.153. Ma sulla punta non ci sono soltanto diamanti: ad impreziosirla ci sono pure 2.317 tra rubini, zaffiri e altre gemme, e ben 1.065 campane d’oro. Peraltro la simbologia è fortissima e tutto ha una spiegazione: la parte inferiore dello stupa è circondata da sette anelli concentrici di forma irregolare; la seconda parte ricorda il doppio trono di loto: uno rovesciato ed uno invertito, che funge da piedistallo per alcune immagini del Buddha; la terza parte della guglia ha la forma di una lacrima allungata; la quarta è quella più slanciata ed è “l’ombrello”.

Tuttavia qui nulla è come sembra. La trasformazione dei luoghi è periodica e l’arricchimento è continuo. Basti pensare che nel 1999 è stato realizzato nel padiglione della Chinese Merited Association un Buddha in giada massiccia con 324 kg di giada del Kachin (una zona nel nord del Myanmar) e intarsiato con 91 rubini, 9 diamanti e 2,5 kg di oro.

La preziosità del tutto non induca però in errore e a spiegarlo è la filosofia alla base dell’essere buddhista: il Buddha non ha bisogno di oro, sono gli uomini che rinunciano all’oggetto prezioso e bramato per rendere grazie al loro faro.

 

 

Articolo pubblicato al link: http://www.turismoitalianews.it/focus/36-focus/1887-birmania-nella-shwedagon-pagoda-di-yangon-per-un-esperienza-di-vita-ecco-il-capolavoro-del-buddhismo

 

 

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