Prosegue il viaggio dei biker sulle strade dell’Ovest Americano, il Far West (il lontano ovest)
I biker amano percorrere le strade più famose del continente, le icone americane che saltano agli occhi di tutti non appena le si veda. Se li vedrete e avranno la scritta “HOG” sul gilet, solitamente in pelle…non significa “verro”, ma è l’acronimo di Harley Owner Group!
Non sono viaggi per tutti. Devi amare la moto, il paesaggio, la libertà…essere un po’ come Peter Fonda, Jack Nicholson, Dennis Hopper nel film Easy Rider del 1969.

Biker o cowboy?
Quindi, perché non immergersi nello scenario classico dei film western dei due “John”: Ford, il regista e Wayne l’interprete?
Ma non solo loro. Certo furono i primi a portare al mondo l’arida e ferrosa bellezza della Monument Valley, ma anche Ritorno al Futuro 3, Thelma & Luise, 2001 Odissea nello spazio, Forrest Gump, Easy Rider e tanti altri hanno immortalato lo scenario incredibile della valle a fare da suggestivo sfondo.

L’arrivo alla Monument Valley è un colpo al cuore. Dopo un’occhiata a largo raggio ci teniamo la stanchezza della guida controbilanciata dall’eccitazione di poter vedere la valle dei nativi più famosa del mondo.
È un gioiello della Navajo Nation, dove i nativi sono padroni e vendono i loro splendidi monili tradizionali, manufatti di argento e opale e turchese, magari un po’ cari, ma autentici. Il pianoro desertico di Tse’Bii’Ndzisgaii, (la valle delle rocce),il nome in lingua originale, è stato scavato dal fiume (Colorado Plateau) e si trova a cavallo, ovviamente, tra Arizona e Utah, in un’area abbastanza isolata quanto estesa che dista più di 70 km dalla cittadina più vicina: Kayenta.
La strada che conduce al cuore della Monument Valley è famosa, la Highway 163, per il colpo d’occhio che si gode in distanza: segue un percorso rettilineo in leggera discesa che dà al viaggiatore l’impressione di entrare in una quinta teatrale. La foto classica vista in mille e mille pubblicazioni va fatta però di mattina presto per avere il sole alle spalle che illumina i “monument” che in realtà sono detti “butte” o “mesas”, meglio visibili da uno dei 27 punti panoramici sparsi per le 17 miglia del loop, veri edifici naturali formati da roccia e sabbia dalla forma di torri dal colore rossastro, causato dall’ossidazione del ferro contenuto, con la sommità piatta dalla forma conica rovesciata per i detriti che si ammassano ai piedi.

Si può esplorare la valle con la propria auto; diversamente si può visitare a bordo dei camioncini dei nativi, che organizzano tour guidati, per terminare con la merenda a base di Navajo Taco, una rivisitazione della tortilla mesicana (stesse radici) con verdure e fagioli. Vale la pena un giro al visitor center e sperare che non sia in corso una tempesta di vento: potreste non vedere nulla o quasi del magnifico spettacolo.
La notte alla Monument, nella quale volendo si può dormire, in una “hutte” di legno e terra, tipica abitazione degli antichi Navajo, è preludio al giorno seguente, che sarà lungo e pieno di emozioni: si pregusta la visita ad uno dei più grandi monumenti naturali planetari, una delle meraviglie naturali.

Lasciata la “Valle”, davanti a noi c’è l’ incommensurabile gioiello della natura, il Grand Canyon, tutto situato in Arizona. Sebbene non sia il più grande né il più profondo del pianeta è il più noto per la sua completezza e complessità. Per gli studiosi di geologia è un libro sulla storia del pianeta: da 2 miliardi a 230 milioni di anni fa.
Il Gran Canyon è una ferita nella terra: si tratta di una immensa gola creata dal fiume Colorado, 446 chilometri circa, profondo fino a 1.600 metri e con larghezza variabile fra i 500 metri e i 27 chilometri. Sono quasi due i miliardi di anni di storia del pianeta venuti alla luce grazie all’azione erosiva del Colorado e dei suoi affluenti, che in centinaia di milioni di anni hanno fatto riemergere strato dopo strato i sedimenti databili al proterozoico ed al paleozoico. Attorno una miriade di punti di osservazione, che ti danno una veduta meravigliosa di una meraviglia della natura.
Si entra da Desert View dove si incontra la “Watch Tower” costruzione in stile indiano, non originale. Si costeggia il South Rim (bordo sud) verso Tusayan per circa 45 km dove c’è l’eliporto per i sorvoli panoramici. Li effettua la Papillon Helicopter, con voli realmente mozzafiato su “chipper” che si librano sulla verticale dello strapiombo sul Colorado per farvi ammirare nella pienezza della maestosità questo incommensurabile luogo.

Solo mezz’ora compreso il tratto per raggiungere il bordo del canyon, ma ne vale assolutamente la pena. Verrete pesati e le operazioni di imbarco prevedono l’assegnazione incontestabile del sedile.
La notte si passa al Grand Canyon village: alberghi confortevoli, adatti a passare una notte, ma qui c’è una delle steak house più divertenti e interessanti: “Big E” ottima carne, prezzi contenuti e (spesso) spettacolo di varietà incluso!
Biker sulla “66” verso la California…
E’ di nuovo mattina. Ancora con lo stupore, lasciato dalla vastità del Grand Canyon, negli occhi si risale sui cavalli d’acciaio, ruota verso Williams (1881) … non lontanissima, ma pur sempre a circa 100 miglia.

La cittadina appare tutta “montata” attorno alla “Route 66”, lungo la quale arriviamo solcando la main street, che poi altro non è che la “moteher road”, come ai tempi del vecchio west. Poco e nulla all’intorno, al massimo un isolato e tutto su due linee parallele di negozi, baretti e ristoranti. La madre di tutte le strade è qui; il logo “66” è dappertutto e il tema, i motori, con i negozi pieni di memorabilia pronti ad essere, ancora una volta, svaligiati dai maniaci cacciatori di cianfrusaglie made in Usa.

Da non perdere la stazione ferroviaria, nodo focale nei tempi andati, terminale della Southwest Chief Amtrak train route e della Grand Canyon Railway, che termina al Grand Canyon village, come la stessa “Historic route 66”, ormai relegata a strada di folklore, soppiantata dalla “I 40” che si deve percorrere a tratti alterni, per poi tornare sulla vecchia, cara, “66”. Si cammina proprio lungo questa, magari avventurandoci un blocco “up” e uno “down” ma non di più. Fra un negozio di stemmi o qualunque cosa con il logo “66” e il “Cruiser’s 66 cafè “, guardando il cielo limpido e finendo per concedersi, prima di ripartire per uno dei tratti più emozionanti del percorso, un espresso…locale.
Dai, abbiamo bevuto di peggio!
La mattina passa agile, perdendo piacevolmente del tempo. Arriva il lunch time che “sfanghiamo” con un bel burgher, poi via verso un pomeriggio intensissimo di luoghi indimenticabili, con rotta finale, Los Angeles!

Lasciata Williams alle spalle, il tratto offre una full immersion nella leggendaria “Will Rogers highway”, la “66”, la strada che più o meno percorreremo fino al territorio del Nevada, dove si pernotterà a Laughlin, ultimo avamposto del free gambling prima di tornare in California.
Da Williams inizia uno dei tratti meglio conservati e più suggestivi della “Mother road” attraversando paesini come Seligman che conserva il sapore della vecchia “strada” solcata dalle Ford T in ogni allestimento e ti riporta indietro nel tempo, quando questa era l’unica via di comunicazione fra il midwest di Chicago ed il west di Los Angeles. Nata nel 1865, dopo il completamento della ferrovia “Peavine”, altro non era che la trasformazione urbana del Prescott Junction, l’accampamento dei lavoratori ferroviari.

Per un biker la “route 66” è un dogma insostituibile
Parte integrante della “66” dall’apertura nei tardi anni’20, Seligman ne visse pienamente le opportunità, fino alla fine degli anni’70 quando fu tagliata fuori, dalla Interstate 40 e la ferrovia Santa Fè cessò le operazioni nella cittadina nel 1985. Seligman, però, sopravvisse a questo smacco economico: sul tratto di “66” che non potete non riconoscere, che in realtà si chiama West Old Highway, variopinto, un po’ pacchiano, o forse è meglio dire “kitsch” e trafficato, una sosta al RoadRunner s’ha da fare o al Delgadillo’s Snow cap burgher … se non per un altro acquisto, per una buona insalata o un mega hamburger con una dissetante limonata rigorosamente “home made”.
Proseguendo si arriva ad Hackberry, fondata nel 1874, attorno alla miniera, ma con la dismissione e l’abbandono della “66” resta solo una stazione di servizio, con tantissime “memorabilia” da ammirare: una pompa originale di benzina di inizio secolo scorso, un coevo garage attrezzato con rottami e altri impagabili reperti. Il must, comunque resta una capatina al bagno, tappezzato di immagini, molto eloquenti, per soli “gentleman”. Da vedere…anche quello elle signore, come l’arredamento della stazione di servizio.
L’Arizona contiene il più lungo pezzo di Route 66 ancora in “working order” da Ash Fork al Colorado River puoi guidare per 150 miglia sulla Mother Road. È dopo pochi chilometri che i biker passano rombanti da Kingman, e girato dietro la ferrovia, la strada s’inerpica verso il Sitgreave Pass, strada a curve dolci e piacevolissima da percorrere, con le tipiche crepe del selciato riempite di asfalto come più o meno dappertutto qui.

Una sosta al “Cool Springs Cabin” spaccio e vecchio distributore di benzina è auspicabile, quantomeno per incontrare un vero road runner (il Beep Beep di Will Cayote) quasi addomesticato. Se proprio c’è tempo, si può andare, a circa 70 miglia, allo Skywalk del Gran Canyon West, il famoso ponte di vetro sospeso sullo strapiombo. Dal Sitgreave si scende verso Oatman, agglomerato di case dal tipico aspetto western, nata attorno alla miniera d’oro, tanto tipicamente western che al bar dove ci fermiamo per una limonata fresca, fuori sulla main road gironzolano i famosi asini di Oatman, quadrupedi selvatici, padroni della strada, protetti, discendenti di quelli che lavoravano in miniera nel primi anni dello scorso secolo.

Un luogo che vale la pena di visitare è il saloon dell’Oatman Hotel, dove trascorsero la prima notte di nozze Clark Gable e Carole Lombard, la cui peculiarità è avere le pareti tappezzate di banconote da un dollaro, vere. Dai 2300 metri di Oatman si scende verso la California, si varca il confine, si esce dalla leggendaria “66” e andando verso nord si arriva a Laughlin, l’ultimo avamposto del Nevada prima della California.
Il viaggio volge al termine. Ancora qualche emozione la regalano gli ultimi tratti della Sixty-Six. Ci fermiamo al Roy’s, motel in disuso che sta per rivivere i fasti di un tempo, grazie ad un’attenta ristrutturazione dove troviamo un gruppo di “biker amazzoni” con cui facciamo gemellaggio per una limonata (bevanda a base di limone n.d.r.).

Ma la cosa più emozionante è entrare al Bagdad Cafè, quello vero biker friendly, a Newberry springs, poco fuori dal deserto del Mojave, in California, dove fu girato l’ omonimo film “cult” del visionario Percy Adlon (1987). Va detto che prima del successo dovuto al film, il locale si chiamava Sidewinder cafè.
Ci accoglie la proprietaria, quella vera, Ms.Andrea Pruett, ma non c’è, come sottofondo, l’avvolgente brano legato per sempre a questo cult movie “I’m calling you”, le cui parole recitano pressappoco così:
“Una strada deserta da Vegas al nulla, qualche posto migliore di quelli dove sei stato. Una macchina da caffè che va riparata, in un piccolo caffè appena di là dalla curva, ti sto chiamando…ma non puoi sentirmi”.

Il luogo è comunque magico, permeato di quell’atmosfera surreale che evoca la canzone interpretata da Javetta Steel … con qualche avvenente ragazza (datata 1950…) che ancora indossa sempiterni stretch leggins, bionda platino (!), memoria dei fasti ormai andati. Dopo un buon pancake la polvere si reimpossessa dei nostri occhi e ci dirigiamo nel caldo tremolante del primo pomeriggio per l’ultima galoppata, destinazione Los Angeles attraverso l’Angel crest national forest, nelle St. Gabriel Mountains.
Giunti a Wrightwood si devia verso Big Pine, dove vela la pena, se avete fame, di fermarsi al Grizzly cafè. Si prosegue per la “2” e si sale fio all’estremità del Dawson Saddle, il passo a 2409 metri da cui si domina la valle in cui inizia Los Angeles, nell’entroterra, poi si scende a capofitto fendendo anche le basse nuvole, che spesso insistono sull’area, per l’ultima galoppata prima di rituffarsi nel caos della “città degli Angeli”, per chiudere un cerchio che dalla California ci riporta alla California, dopo essere passati per Arizona, Nevada e Utah.

L’insegna di Eagle Rider s’ingrandisce man mano che ci avviciniamo all’head quarter. Dobbiamo riconsegnare le moto, i fidi destrieri che ci hanno tenuto compagnia per 3mila chilometri, circa 1800 mila miglia in sella per un’indimenticabile esperienza, vissuta in gruppo, con uno splendido spirito di cameratismo.
Ci mancheranno i potenti e mai domi cavalli delle nostre “due ruote”, la splendida Indian, colori originali e old fashion, o la rumorosa Harley, Electra Glide, Heritage Softail, Street Glider, Road King, Fat Boy, i rombanti e cromati “cancelli a motore” che abbiamo cavalcato attraverso quattro Stati. La promessa è di ripetere, presto!
Prima di ritornare in Italia con gli occhi e la mente ancora “on the road” sentiamo riecheggiare le parole di Kerouak:
«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati» «Dove andiamo?» «Non lo so, ma dobbiamo andare».
Un viaggio indimenticabile realizzato grazie al catalogo BIKERS, di Idee per Viaggiare