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venerdì, Marzo 29, 2024

Gujarat, fra gli ultimi nomadi del deserto del Kutch

Testo di Laura Colognesi

 

"Aavo Padharo" ("benvenuto") ripetono con un sorriso in lingua gujarati gli abitanti del Gujarat, estrema propaggine occidentale della penisola indiana al confine con il Pakistan, dove il turismo non è ancora arrivato e l’India mette a nudo la sua anima più autentica. Da Bhuj, il capoluogo del Kutch a due ore di volo a nord di Mumbai, con il suggestivo Aina Mahal, il "Palazzo degli Specchi" costruito nel XVIII secolo, e il Prag Mahal, il palazzo voluto dal reggente Rao Pragmalji II, la strada verso nord si addentra nel Rann ("palude salata") di Kutch, il Grande Deserto ai confini con il deserto pakistano del Sindh, dove vivono le etnie dei nomadi Rabari, Banni e Koli.
Sguardi che penetrano, uomini e donne in silenziosa processione ai bordi delle strade, polverose e assolate, spesso in condizioni precarie. Sguardi intensi e fieri di donne spose troppo presto, nel paese che conta il più alto numero di matrimoni infantili del mondo, dove nei villaggi disseminati qua e là l’istruzione è ancora un miraggio. Un viaggio in India è una lezione di vita, intima e introspettiva, che costringe a fare i conti con se stessi, e lo è ancora di più nel Gujarat, la regione più autentica ed originale, che ha fornito alla storia il maggior numero di rja e maharaja, patria di Mahatma Gandhi, la Grande Anima dell’India, che nacque a Porbandar nel 1869. Il monsone estivo riempie di acqua il deserto piatto, esteso per circa 30.000 km², fatto di argilla salata e aree fangose a un’altitudine di 15 metri sul livello del mare, sorvolato da uccelli migratori e popolato dagli ultimi esemplari di khur, l’asino selvatico dell’Asia. La natura crea così un mosaico di isolette sabbiose di cespugli spinosi, luogo di svernamento per grandi stormi di fenicotteri rosa, che di tanto in tanto si alzano in volo rompendo il silenzio assordante. Qua e là i villaggi delle comunità pastorali. Le donne dai capelli corvini e dalle ciglia folte che filano tessuti dai colori vivacissimi, resi unici da disegni stampati, diversi da villaggio a villaggio, e svolgono i più duri lavori manuali, indossando con fierezza bellissimi abiti dai colori sgarcianti, forti e penetranti, impreziositi da pesanti gioielli mentre gli uomini assicurano il sostentamento allevando le greggi.
Tutta la vita qui, su una strada. "La vera casa non è una casa, ma la strada e la vita è un viaggio da fare a piedi" diceva lo scrittore britannico Bruce Chatwin.
Chi lavora, chi si riposa, chi mangia. Un pittoresco andirivieni di un mondo lontano, ancora incontaminato, non intristito e globalizzato dal progresso, che cerca di restare se stesso. Senza fretta né ansie, spontaneo e senza malizia, ognuno al suo posto vive la propria semplice esistenza. Un modo diverso di affrontare il quotidiano, a cui noi europei non siamo più abituati.
Una terra che ha rappresentato soprattutto la roccaforte storica dello jainismo, il movimento religioso dell’estremismo ascetico dei santoni nudi e della non violenza portata all’esasperazione, tanto da far indossare i suoi adepti una mascherina sulla bocca per non uccidere i microbi e pulire la strada con una scopa per non calpestare gli insetti. Il divieto imposto di coltivare la terra, pescare o allevare animali ha esaltato la creatività, con la produzione di eccellenti tessuti con disegni dai colori brillanti, mobili laccati e oreficeria di alto valore.
Lungo la strada un’ordinata moltitudine di uomini e donne percorre a volte centinaia di chilometri per i pellegrinaggi, anche quando il sole non illumina più la via. Carri trainati da buoi, animali, individui spuntano all’improvviso, illuminati dagli abbaglianti e, altrettanto all’improvviso, scompaiono dallo specchietto retrovisore. Nulla sembra turbare la loro tranquilla esistenza e le loro millenarie tradizioni. Sostano in raduni improvvisati ai bordi della strada, seduti per terra, dove presente e futuro si mescolano senza scalfirsi. Vecchie signore cucinano antiche ricette mentre bambine dall’aria felice fotografano con gli smartphone i rari europei di passaggio. La tecnologia sta arrivando ma non sempre porta felicità. Da Bhuj si guida verso Bajana, attraversando il Tropico del Cancro, sostando nelle postazioni semi-nomadi delle tribù pastorali.
Tutto attorno sconfinate pianure aride e deserti stopposi. Ma il senso del viaggio è qui, ai bordi della strada asfaltata. Vicino ma mai così lontano. Da lontano si scorge una tenda enorme, abitata dagli Jat, una delle ultime tribù di pastori nomadi, dove le donne sposate, poco più che bambine, indossano con fierezza un enorme anello infilato nel naso fino ad anno dopo il matriomonio. Solo una guida riesce ad avvicinarli. Un microcosmo patriarcale apparentemente autosufficiente, non addomesticato, dove le donne lavorano i tessuti che solo gli uomini, dediti alla terra e alla pastorizia, rivendono nei mercati vicini. Quasi spoglio l’interno della tenda, senza accessori, elettrodomestici, televisione.
Ma sorridono, hanno l’aria felice, hanno bisogno di poco per sopravvivere. Ogni sei mesi, quando il monsone arriva, spostano la loro tenda e la loro routine in un altro luogo, senza nome. Questo incontro, anche se fugace e reso complicato dalle difficoltà linguistiche, vale da solo il viaggio. Felici con niente e nel niente. Al contrario di molti europei, troppo spesso indaraffati a cercare il souvenir ad ogni costo, in modo quasi compulsivo, senza il tempo di cogliere le grandi storie dai piccoli dettagli. A nord del Tropico del Cancro, su un’arida e vasta distesa, il Deserto Bianco segna il confine naturale con il Pakistan. Un luogo surreale, immenso, completamente sommerso durante la stagione dei monsoni. Il più grande deserto di sale del mondo, esteso su circa 10.000 km quadrati dove, nella solitudine, si avverte la coscienza dei propri limiti.
Lungo la strada ogni sosta è una scoperta. Sfruttare le risorse del territorio è la prima regola su cui si basa ogni società. Come le donne della comunità Ahir intente al ricamo a mano nel villaggio di Dhaneti e, non lontano, gli artigiani tessili Ajrakh, nel villaggio di Dhamadka, abili ideatori di una tecnica per la stampa dei tessuti ottenuta dall’utilizzo di blocchi scolpiti con i motivi a rilievo. Alcuni villaggi non hanno nome, sono strade di fango in mezzo al nulla, con poche case costruite vicino a fonti d’acqua, ma i sorrisi contagiosi e spontanei dei bambini sono qualcosa che rimane dentro, anche a distanza di mesi. E’ il grande tesoro, inestimabile, dell’India.
All’alba, in fuoristrada, si guida verso il Piccolo Deserto di Kutch, landa disabitata dove le tribù locali estraggono il sale dal sottosuolo, pompando l’acqua dalle falde sotterranee. Verso l’Est si intensificano le città, e svanisce il silenzio del deserto. Modhera, con l’imponente Tempio del Sole costruito nel 1026 sulla riva del fiume Pushpavati da re Bhima I della dinastia Solanki, progettato – come il più celebre tempio di Konarak – in modo che durante gli equinozi i raggi del sole nascente illuminassero, attraverso la porta principale, l’immagine di Surya, il Dio del Sole, eretta all’interno del Sancta Sanctorum. Lungo la strada, in direzione nord-est, si sosta a Patan, l’antica capitale hindu con il Rani-Ki-Vav ("Pozzo a gradini della Regina"), un "baoli" (tipico pozzo a gradoni su più strati del Gujarat), un’opera di eccellente ingegneria, unica nel suo genere, costruita nel periodo dei Solanki o Chalukya, rivolta verso est e che misura approssimativamente 64 m di lunghezza, 20 m di larghezza e 27 m di profondità, incisa con splendide figure, di straordinaria eleganza. Una piccola porta sotto l’ultimo gradino del pozzo conduce all’ingresso di una galleria di 30 chilometri (ora bloccata da pietre e fango) che conduce alla città di Sidhpur, vicino a Patan, usata come via di fuga per il re che costruì il pozzo in tempo di guerra. A Patan, dove si può anche pranzare a casa dei locali (www.patanpatola.com, su prenotazione, 10 USD), si filano i "patola", i sari in seta, realizzati secondo un’antica tecnica raffinata e complessa, in cui il filato viene dipinto creando il disegno prima della tessitura. Proseguendo verso sud, fra villaggi via via più numerosi, con mercati colorati, intrisi di sapori e vecchi mestieri, si giunge a Ahmedabad, la città fortificata fondata nel 1411 dal sultano Ahmed Shah, che la adornò di splendidi monumenti indo-islamici e forti, testimonianza delle numerose battaglie, assedi e conquiste mughais, marathas e britanniche. Sesta città dell’India per numero di abitanti, divenne un importante centro tessile durante lo sviluppo industriale del XVIII sec., ancora oggi famosa per la produzione di splendidi tessuti.
Capoluogo economico e culturale, nel 1915 Ahmedabad divenne sede del Sabarmati Ashram, il quartier generale di Gandhi (tutt’ora visitabile e molto toccante) sulle rive del fiume Sabarmati, durante la lotta per l’indipendenza dell’India. Da qui, il 12 marzo 1930, Gandhi partì per la famosa "Marcia del Sale" fino al Golfo di Cambay, in segno di protesta contro il monopolio governativo sulla produzione e la vendita di sale. Il fiume divide la città in due zone. Sulla riva orientale, a Badhra, oltre alla città vecchia, sorgono le maggiori attrazioni turistiche. Ovunque un disordinato e colorato andirivieni di tuk-tuk, motorini, furgoni, un gigantesco "flipper umano" in cui tutti suonano, si sfiorano ma nessuno si ferma. E nessuno mai si scontra. Dalla stazione centrale si percorre la Gandhi Road fino al "Teen Darwaja", la porta in pietra scolpita a triplice arcata percorsa un tempo dai cortei regali che lasciavano il palazzo per assistere alla preghiera del venerdì presso la Grande Moschea (Jami Masjid), edificata dal Sultano Ahmed Shah e composta da 15 cupole, sostenute da ben 260 colonne con incisioni molto elaborate. Varcata la porta si accede al bazar costituito da un dedalo di viuzze dette "pols" ove si affacciano botteghe spesso minuscole e antichi palazzi con facciate decorate in legno scolpito fino a Manek Chowk, la grande piazza-mercato dove si vendono oggetti artigianali in ottone. Verso sud si prosegue per Vadodara (o Baroda), dove merita una sosta il sontuoso palazzo in stile indo-saraceno Laxmi Vilas Palace, costruito nel XVI secolo dal Maharaja Sayajirao Gaekwad III, su un terreno di oltre 700 acri, senza badare a spese.
Ma la nostra anima è rimasta con gli ultimi nomadi del deserto.

Info: "I Viaggi di Maurizio Levi" (Tel 02 3493 4528, info@viaggilevi.com, www.viaggilevi.com), itinerari di 15 giorni di gruppo l’8 novembre, 27 dicembre, 25 febbraio e 28 marzo 2015, voli Swiss Air.

Ufficio Nazionale del turismo indiano: Tel 02 804952, info@IndiaTourismMilan.com, www.IndiaTourismMilan.com

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